Perché uno studente del 2016 dovrebbe ancora studiare
il Latino? La risposta è che il Latino serve a tutto
C’è poi così tanta differenza tra affrontare un Liceo con o
senza il Latino (questa opzione è oggi sempre più diffusa). Gli studenti delle
medie sono sempre più spaventati da questa disciplina e preferiscono evitarla,
forse per la paura di fare eccessiva fatica.
Mi sembra opportuno
allora chiedersi: a che serve il Latino? È proprio così opzionale il suo
studio? Premetto che sono fermamente convinto che chiunque abbia affrontato
seriamente lo studio del Latino non abbia dubbi sulla sua utilità. Sono
altrettanto convinto che studiarlo male non serve a nulla, mentre se lo si
affronta con serietà serve a tutto, perché illumina di una luce nuova ogni
ambito. In un certo senso per l’uomo tutto ciò che non è amico e non è
conosciuto è come se fosse nemico, non valorizzato, non utile per la vita e per
la crescita. La conoscenza del Latino permette di apprezzare maggiormente molti
aspetti della realtà. Ma quali? Solo lo studio e l’esperienza possono
testimoniarlo a ciascuno. Anticipo, però, che bisogna avere il coraggio di far
fatica, di impiegare tempo (come per la volpe del Piccolo principe), anche quando non se ne comprendono
appieno le ragioni. Bisogna avere il coraggio di spendere del tempo per
imparare bene la disciplina.
Vorrei chiarire ora i motivi per cui valga davvero la pena
appassionarsi del Latino. Ricordo che da sempre i suoi più agguerriti difensori
hanno addotto la motivazione che lo studio di una lingua antica e morta insegna
a ragionare e sviluppa la logica. Chiaro che la motivazione non regge e i
ragazzi comprendono l’inadeguatezza della risposta. Perché non imparare a
ragionare con altri metodi meno faticosi e più allettanti? Anche la settimana
enigmistica può insegnare a ragionare, anche la Filosofia, anche una
dimostrazione di matematica, anche un testo di narrativa o una poesia, un
quadro, una musica. Perché dunque faticare così tanto nel 2013 ancora sul
Latino?
In
primo luogo, l’esperienza mi insegna che il Latino spalanca la comprensione del
presente come epoca che è figlia di un passato. La nostra tradizione
occidentale ha le sue radici nella cultura greca, in quella romana e in quella
cristiana. Il ragionamento, la filosofia, il gusto della bellezza, etc. sono in
gran parte eredità lasciataci dai Greci, il diritto, il senso dell’unità dello
Stato, etc. provengono dai Romani, l’avvenimento cristiano ha, poi, introdotto
una nuova concezione della persona, della civiltà, della società, etc. Quindi,
studiare la civiltà, la letteratura e la lingua latine significa conoscere le
proprie radici, è un po’ come conoscere meglio un proprio genitore. Permette di
cogliere ciò che accomuna l’uomo di oggi all’uomo antico e, nel contempo, introduce
alla comprensione del cambiamento avvenuto nei secoli.
In
secondo luogo, la conoscenza del Latino illumina il linguaggio e le parole.
La lingua e la parola raccontano la storia di una civiltà, dell’evoluzione
umana, della cultura di un popolo. Vorrei qui addurre un solo esempio. Pensiamo
al vocabolo «cultura». Il fascino di una parola risiede nel fatto che essa
descrive una storia, racconta una parte dell’avventura umana. Il verbo latino colo, che è alla base della parola «cultura»,
sottolinea e descrive il passaggio dell’uomo dalla condizione nomade a quella
sedentaria. Il verbo significa «coltivare», «abitare», «venerare». Un popolo
che diventa sedentario ha imparato a coltivare la terra, la abita e venera le
divinità del luogo. Nel termine «cultura» risiede questo radicamento nelle
proprie origini e nella propria terra, senza il quale non è possibile crescere
e dare frutti. Da questo radicamento scaturisce la possibilità di trarre linfa
vitale, ovvero la possibilità di germogliare, di crescere nel fusto e di dare
frutti buoni. Capiamo allora che la cultura non ha a che fare con la conoscenza
di tante componenti della realtà, ma deriva da un passato (il terreno in cui
siamo cresciuti, la tradizione) e si apre ad una domanda sul presente e sul
futuro. La parola «cultura» coinvolge non solo la sfera della materialità
(l’aspetto fisico, concreto, pragmatico dell’uomo), ma anche la componente
religiosa, include la questione dell’uomo e del suo rapporto con il destino,
ovvero le grandi domande dell’uomo. Potremmo anche affermare che il fenomeno
culturale si traduce in una capacità di giudizio sul presente e sulla realtà e
in un’ipotesi e in una speranza sul futuro radicata nel presente. Un’incursione
nella cultura e nell’arte mondiali farebbe emergere fin da subito il loro
carattere religioso e metafisico. I Latini pensavano che il termine nomen derivasse etimologicamente da omen, cioè che la parola indicasse in sé il destino
dell’oggetto o della persona, le sue caratteristiche specifiche. Nomina consequentia rerum, ovvero i nome sono
conseguenza della realtà delle cose.
In
terzo luogo, dai Latini, così come dai Greci, noi deriviamo la retorica, che
insegna a scrivere bene, a parlare bene, a persuadere. Nelle scuole
dovrebbe essere inserita questa «nuova disciplina», in realtà antichissima.
«Saper parlare bene» e «saper scrivere bene» sono due competenze trasversali
fondamentali, per usare il lessico frequente nelle scuole, così come il «saper
ragionare» e il «saper giudicare». Dal momento che la retorica non viene
insegnata come disciplina a sé stante, gli studenti dovrebbero apprenderla
nelle materie di Italiano, Latino e Greco. Ma questo accade?
In quarto luogo, fatto
non meno significativo, la lettura delle grandi opere della letteratura latina,
di Virgilio, di Orazio, di Seneca, di Cicerone (per citare solo qualche nome
illustre) permette di incontrare i «grandi del passato», di confrontarci con
loro (come scrive Machiavelli nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre
1513), di scoprire il loro pensiero, i loro vertici artistici, … Potrei
proseguire con l’elenco delle tante finestre che questa disciplina può aprire
durante le giornate, ma sarebbe sterile e riduttivo, perché ognuno di noi deve
verificare personalmente quanto sto dicendo.
Ritengo, invece, importante sottolineare che l’apprendimento
di una disciplina non è strumentale all’apprendimento di una competenza che
deve essere acquisita. La nostra scuola è diventata una scuola delle competenze
(del saper fare) spesso svincolate dalla cultura. Le antologie, talvolta,
propongono la lettura di una poesia per conseguire una competenza, per imparare
un aspetto di stile, o una figura retorica o quant’altro. Questa è una
operazione violenta che rischia di far disinnamorare i ragazzi alla lettura,
alla poesia, alla narrativa. Quando sei innamorato di una disciplina, quando la
ami, capisci che è un’operazione assurda limitarne lo studio per far conseguire
agli studenti alcuni obiettivi specifici.
Comprendi che la cosa più bella è che un’altra persona possa
essere affascinato, come lo sei stato tu, da quella bellezza. È questo fascino, questa passione, questo
entusiasmo per qualcosa che ci ha preceduto, che è più grande di noi, e che, in
qualche modo, ci ha generato la vera scaturigine che può portare un ragazzo a
studiare il Latino.